Cave, miniere e affini
Il rame di Sagliano Micca: un affare di Stato nel Seicento
[da “Eco di Biella” del 21 agosto 2023 – Danilo Craveia]
Dapprima l’argento, poi l’oro e, infine, il rame in Valle Cervo
Una miniera redditizia “in faccia a Passobreve” e una fonderia a Sagliano Micca
Un capitano savoiardo avvia l’industria mineraria saglianese nel 1666
Nell’articolo che segue si cita come fonte il primo dei quattro volumi de I tesori sotterranei dell’Italia, pubblicati da William Paget Jervis tra il 1873 e il 1889. In quelle pagine sono indicate le tipologie di minerali presenti anche nel sottosuolo biellese. Dalla lista emergono elementi piuttosto noti e frequenti, altri invece un po’ sorprendenti. Nella zona della Bessa e della Serra, tra Borriana, Mongrando e Zubiena, c’era (e c’è) l’oro. Alla fine del XVIII secolo lo si “pescava” ancora e gli orefici di Biella lo acquistavano per lavorarlo. A Zubiena c’è (sempre meno) lo zolfo che “profumava” la celebre fontana. A Netro si era notata la presenza del rutilo, ossia il biossido di titanio, mentre a Sordevolo era segnalato lo sfeno o, meglio, sfene, conosciuto anche come titanite, per l’alto tenore di titanio. In Valle Cervo c’era la blenda, ovvero la sfalerite, minerale dal quale si estrae lo zinco (ma anche il cadmio, il gallio e l’indio). A Quittengo si incontrava la molibdenite. Il molibdeno ha tuttora mille usi, anche in medicina. A Selve Marcone e Zumaglia il prezioso corindone, che di solito si chiama smeriglio (da cui il termine smerigliare). Dello stesso minerale fu attiva una miniera in Valsessera durante la Grande Guerra.
Già il 5 novembre 2016 in questa rubrica abbiamo parlato di risorse minerarie del Biellese. Allora si era osservato il territorio per come appariva, sotto quel punto di vista, nell’Ottocento. Ma il Biellese ha avuto un passato di miniere ben più remoto. E, senza arrivare alle note aurifodinae della Bessa di epoca celto-romana, o alla Valsessera medievale, basta tornare al XVII secolo per cogliere un aspetto poco conosciuto della storia della nostra terra. Per abbozzare a grandi linee quelle vicende, ormai del tutto dimenticate, non si può prescindere dal lavoro assolutamente rilevante di Giuseppe Pipino, geologo ma anche ricercatore e divulgatore, senza il quale si procederebbe decisamente a tentoni. Incrociando le indicazioni archivistiche del professor Pipino con altri riferimenti bibliografici è possibile dare qualche informazione sullo sfruttamento minerario del Biellese e, in particolare, della Valle Cervo. Serve, fin d’ora, una premessa. La documentazione storica indica, specialmente per i tempi più lontani, l’area della Valle Cervo da Miagliano in su semplicemente come Andorno. In effetti, storicamente, con Andorno si intendeva non solo il capoluogo (Cacciorna), ma anche tutta la vallata, la Valle d’Andorno per l’appunto, fino a Piedicavallo. Quindi quando i documenti segnalano Andorno non significa il centro abitato che attualmente conosciamo come Andorno Micca, ma una zona assai più vasta che includeva Sagliano, Tavigliano, i colli fino a Selve Marcone e tutta la Bürsch (denominata, all’epoca, Cantone Valle). Nel 1621 tutte queste terre furono erette a marchesato ed è nel periodo in cui il marchesato esistette (1722) che si concentrano le maggiori attestazioni di attività non solo estrattiva, ma anche di fusione e lavorazione dei metalli. Le prime notizie relative a miniere nella regione di Andorno datano alla fine del Duecento e all’inizio del Trecento, con precisi riferimenti all’argento. Nel primo volume de I tesori sotterranei dell’Italia, pubblicato da William Paget Jervis nel 1873 si trova conferma di tale presenza (galena argentifera) in alcuni punti della vallata (da Sagliano Micca a Quittengo, a Campiglia Cervo e a San Paolo Cervo). Nel 1564, con la concessione perpetua di sfruttamento a favore di tale Francesco Olgiati o Olgiato, si scopre che la Valle Cervo era relativamente ricca di oro, ma solo da Sagliano Micca in giù. Nel torrente si “pescavano” non poche pagliuzze e, a volte, anche vere e proprie pepite. Ancora nel Settecento, secondo Jervis, i nostri antenati praticavano la setacciatura delle sabbie del Cervo a Sagliano Micca, Miagliano e Biella, tant’è che il Mullatera, nelle sue Memorie, affermava di aver apprezzato il frutto di tale pratica. Le pagliuzze si trovavano fino a Candelo, Cossato e Mottalciata. Nessuna miniera, in realtà, per quanto concerneva l’oro, ma solo residui alluvionali che, tuttavia, nella seconda metà del XVI secolo motivarono almeno un cercatore a rompersi la schiena da queste parti. Il Duca di Savoia, Emanuele Filiberto, voleva in pagamento il 20% dell’oro, il 10% dell’argento e la quindicesima parte del rame estratto. D’altro canto, stando al documento di concessione a favore dell’Olgiati, c’erano in Piemonte “diverse miniere di varia specie, le quali, stando così sepolte e senza lavorarsi, non producono utile alcuno”. Miniere che, invece, “dandosi a ricercare e lavorare a persone virtuose e dabbene”, potevano offrire qualche rendimento. Va notato che in quei documenti del 1564 compare per la prima volta il rame, che sarà il vero protagonista dell’attività estrattiva vallecervina del Sei-Settecento.
Nel 1634 erano già operative alcune miniere di rame nel territorio andornese, ossia nella Bürsch. Presente come calcopirite, il rame si poteva reperire a Campiglia Cervo, in località Fontane, probabilmente al Campello, e Migliole (?), a Quittengo “alle falde della montagna detta Roch San Martin, sopra Rialmosso, alla distanza di 5 chilometri dal paese verso N., dalla parte sinistra della Valle del Cervo. Antica miniera di rame, coltivata sotto la reggenza di Madama Reale; abbandonata da lunghi anni: la località dicesi ancora Miniere” e ancora “nel luogo detto Macchetto, o Prati di sopra, distante 5 chilometri al N. E. dal capoluogo del Comune, dalla parte orientale di Roch San Martin”. A Sagliano Micca il giacimento più importante, “nella regione detta tuttora Miniere regie e Ramoletti, alla destra del Cervo, in faccia alla borgata Passo breve e sotto il casale di Oneglie, alla distanza di 2 chilometri dal villaggio di Sagliano Micca verso N. 0. – Miniera coltivata al secolo XVIII per conto del Governo sardo ed abbandonata nell’anno 1790, indi ripresa da una società inglese verso gli anni 1866 al 1869; ora (1873) non vi si lavora più“. Nello stesso sito, oltre alla calcopirite, si estraeva anche rame nativo. Nel 1654 allo stesso Olgiati fu rinnovata la concessione includendo anche il piombo. Lo studio del Jervis conferma: la galena argentifera produce più piombo che argento (a San Paolo Cervo, a Campiglia Cervo, “presso le cascine Cortetto, distanti chil. 5 dal capoluogo verso N. e 4 chil. sopra il casale di Piaro”, e a Quittengo dove dal minerale grezzo si ricavava il 60% di piombo buono). Nel 1659 un certo Pietro Boggio dichiarò di aver scoperto una vena d’oro a Rialmosso, località Boffa, e chiese al duca il permesso per un assaggio. Gli fu concesso un mese per le prove, ma non è noto che risultati abbiano dato. Per inciso: i permessi di scavo andavano richiesti al duca perché terre e acque erano proprie del “demanio” ducale, così come oggi appartengono al demanio dello Stato. Che quello di Sagliano Micca fosse rame di buona qualità e discreta quantità è testimoniato dal fatto che nel 1665 il capitano Carlo Emanuele de Montandons, savoiardo (alcune fonti lo danno per originario di Yverdon, sul lago di Neuchâtel), per ordine del duca, aveva avviato esperimenti di fusione e di selezione del rame dal ferro in una fonderia da lui progettata ed edificata in loco.
Il medesimo duca Carlo Emanuele II puntò sul Montadons: lo fece viaggiare in Europa per formarsi e per portare a Sagliano Micca le conoscenze necessarie per far fruttare le miniere di rame. Carlo Emanuele II voleva un arsenale e per costruire armi da fuoco servivano ingenti quantità di metalli. Secondo il professor Pipino, dalla “fabbrica” di Sagliano Micca uscirono, tra il 1666 e il 1682, 120 tonnellate di rame, tutto destinato all’artiglieria. Tant’è che buona parte dei cannoni impiegati dai Savoia nella guerra di Successione spagnola (1701-1714, quella che incluse anche l’assedio di Torino e l’eroico sacrificio del saglianese Pietro Micca) erano stati realizzati grazie al rame estratto proprio a Sagliano Micca. Da un altro documento del 1666, citato ancora dal Pipino, si apprende (con qualche imprecisione geografica) che “la miniera principale si trova in località Drua o terre rosse, sulla sponda sinistra [in realtà, a destra, n.d.a.] del Cervo quasi di fronte a Passobreve, altra di minore importanza al Cantone dei Forgnoni o Coda inferiore; per il trattamento del minerale è presa in affitto la vicina fucina dei fratelli Oreggia, con il terreno e le canalizzazioni, per 21 ducatoni l’anno. Accanto a questa, sarà costruita la moderna fonderia, finita a metà del 1667 e benedetta dal vicario Pezziaa con i suoi preti, la quale provocherà subito proteste per i fumi”. I reclami dei saglianesi non furono solo verbali, visto che il duca inviò un soldato affinché scortasse e tutelasse il capitano Montadons. Lo stabilimento metallurgico di Sagliano Micca rappresenta un esempio precoce della industrializzazione, degli effetti della industrializzazione e dell’atteggiamento nei confronti di tali effetti: la produzione era prioritaria rispetto alle istanze dei contadini e dei pastori locali. L’investimento governativo toglieva qualsiasi valore alle proteste dei locali ben prima di qualsiasi ragionamento anche solo lontanamente ecologico. Altra conseguenza diretta dell’attività della fonderia fu il disboscamento: legna da ardere e carbone non potevano mancare in un sistema produttivo che si basava sulle alte temperature. Le prime produzioni effettive di tale impianto daterebbero al maggio del 1668. A questa data ci fermiamo fino alla seconda parte alla prossima settimana per scoprire nuove notizie sulle miniere e sulla fonderia di Sagliano Micca. Come si è potuto capire, quella saglianese era, a tutti gli effetti, una impresa statale di una certa rilevanza strategica e vale la pena di seguirne il destino.
La fonderia della Longola: il rame di Sagliano valeva oro
[da “Eco di Biella” del 28 agosto 2023 – Danilo Craveia]
La “fondaria” appena costruita si vede nel “Theatrum Sabaudiae”
Nel 1823 era ridotta un rudere, poi fu soppiantata dal lanificio Mantellero
Nel 1669-1670 Carlo Emanuele II investì parecchio per guadagnare di più
La memoria del passato minerario e metallurgico di Sagliano Micca si mantenne fino all’inizio del ‘900, poi l’oblio. Il pezzo qui sotto si conclude così. Tale memoria si mantenne anche per l’iniziativa della William Scott & Sons che, nel 1863-1864, domandò al Regio Demanio il permesso di riprendere le antiche miniere. La zona era quella compresa tra il “riale d’Ojciana” (Luchiama), il rialetto tra il Piano Marzetto e Ramoletti e il Cervo. Cercavano “pietre rossiccie, produttive di rame”. Dopo la proposta scozzese, nacque, nel 1866 in Genova, la “Società Promotrice delle Miniere di Rame di Sagliano Micca”, ma senza successo. Eppure, la memoria rimase. Tanto che sulla rivista “Ars et Labor” del novembre 1909 uscì un reportage di Aristide Manassero: “Il pittoresco delle industrie biellesi”. Ecco cosa scrisse: “Industria principale la lana: ma non esclusiva, poichè secondo la tradizione antica, anche vi furono miniere; e gli argentieri nel 300 in Valle d’Andorno coltivarono miniere […]. Qualche secolo dopo, lungo lo stesso Cervo, risalendone il corso, in Valle d’Andorno avremmo vedute miniere di rame e fonderie, condotte da Carlo Mickland dalla Sassonia”. Non era Mickland, ma Mulhan, e venne a Sagliano Micca solo nel ‘700, ma i conti tornano.
Rieccoci al tema della estrazione e della lavorazione del rame in quel di Sagliano Micca. Rieccoci nel 1668. In quell’anno, Giovanni Tommaso Borgonio (circa 1618-1691) realizzò le tre tavole relative al Biellese da inserire nel Theatrum Sabaudiae, pubblicato ad Amsterdam nel 1682. Non ci interessano quella di Biella né quella del Santuario di Oropa, mentre osservando quella del Marchesato d’Andorno si scorge, già ben strutturata, la fonderia del capitano Montadons. La si trova facilmente, appena a destra (sud) della chiesetta della SS.ma Trinità, lungo il Cervo. Quella zona si chiama Longola e per tutta la sua storia antropica è stata un sito rilevante. Da sempre vi fu un mulino con peste da canapa e da riso, poi arrivò la “fabbrica” connessa alle miniere di rame, poi, al suo posto, sorse un grande lanificio che fu impiantato sulla antica “fondaria” (nel catasto sabaudo del 1752 lo stabile originario è indicato così, ed era ancora in funzione come tale). Fu Stefano Mantellero nel 1860 a convertire l’edificio alla produzione tessile sfruttando il salto d’acqua di cui si era servito due secoli prima il suddetto Montadons. Nel 1885 il lanificio era passato a Gaudenzo Strobino che l’aveva ingrandito fino alle forme attuali. L’azienda cessò dopo l’ultima guerra. Sempre alla Longola, proprio grazie alle bealere derivate per i mulini e per le fucine, fu possibile, già nel 1893-1894, alimentare uno tra i più precoci impianti idroelettrici del Biellese, ma questa storia ci porterebbe altrove. Quel che ci riporta sul tema in oggetto è un bel documento grafico conservato presso l’Archivio di Stato di Torino, realizzato dal misuratore Bartolomeo Bonessio di Cacciorna il 14 agosto 1823. Trattasi del “Tipo regolare del sito di spettanza demaniale regione in Longola, ossia alla Ripa del Cervo sul Territorio di Sagliano, in cui vi esisteva l’antica fonderia per le miniere, rimanendovi ancora le fondamenta, e parte delle rovinose muraglie dell’antico fabbricato”. La didascalia del disegno precisa che tanto in quel che restava dell’edificio, quanto nel cortile erano rimasti “cattivi materiali”, probabilmente scarti di lavorazione o materie prime di pessima qualità non utilizzate. La pianta tramanda la disposizione di quattro comparti distinti, più il cortile, mentre le due sezioni mostrano come qualche decennio di abbandono avesse ridotto una delle eccellenze produttive metallurgiche piemontesi in un cumulo di macerie. Il confronto con il Theatrum Sabaudiae conferma l’assoluta rovina dello stabilimento. Quasi cento anni fa, esattamente nel maggio e nel giugno del 1924, la “Rivista Biellese” pubblicava un breve ma circostanziato studio di Luigi Enrico Pennacchini, archivista di chiara fama, nato a Cassino nel 1879, ma biellese d’affezione e d’elezione (è morto nel 1965 ed è sepolto proprio a Sagliano Micca), sulla fonderia della Longola. Il suo articolo, che nella parte finale si addentra, è il caso di dirlo, nella miniera della “Drua” (c’è anche una foto che ritrae lo stesso Pennacchini e altri due “speleologi” all’imbocco del tunnel), è ricco di dati curiosi sull’inizio dell’attività estrattiva del Montadons e anche sui lavori di costruzione della fonderia, a partire dal 1666.
Pennacchini non rivelava le sue fonti (tratto tipico della storiografia d’antan…, ma è facile intuire che si tratta di documenti della Corte sabauda, ampiamente ri-scoperti da Giuseppe Pipino all’Archivio di Stato di Torino), ma riportava i nomi dei savoiardi e dei tedeschi che furono chiamati come mastri fonditori, segnalava l’acquisto della “tolla” per ricavare lo stemma regio da piazzare come insegna sul portone della fabbrica, segnalava che la “moderna fonderia” era nata sulla più antica fucina dei fratelli Oreglia o Oreggia che, ancora nel 1667, restavano creditori dell’impresa per aver ceduto la loro proprietà allo Stato. E menzionava anche l’altra, più piccola, miniera, quella del “Cantone dei Forgnoni”, noto anche come “Code inferiore”. Anticamente il Cantone dei Forgnoni definiva l’attuale borgata di Forgnengo, ma il riferimento a Case Code svela tutt’altra posizione topografica, e ben più coerente rispetto al discorso che stiamo affrontando. Però il Pennacchini, che forse non aveva avuto sottocchio tutte le fonti disponibili oggi, prese qualche abbaglio. Il primo, e più rilevante, riguarda la posizione della fonderia che colloca, senza esserne sicuro, al “Tengior”. Si fa ingannare dall’ubicazione di un ponte, probabilmente di fortuna, che i minatori teutonici avevano gettato sul Cervo per arrivare alla “Drua” e per trasportare in sponda sinistra i materiali scavati. Quel ponte, detto “dij Alman”, cioè degli alemanni, doveva essere in effetti un po’ più a monte della Longola, magari all’altezza del cimitero di Sagliano Micca, che, grossomodo, corrisponde alla regione Tintoria (e se quel ponte “degli Alemanni” coincidesse invece, all’attuale ponte di Oneglie? D’altro canto, la “Drua” si trovava da quelle parti, no?). Al Pennacchini non venne in mente di dare un’occhiata al Theatrum Sabaudiae e non ebbe modo di vedere il “Tipo” del geometra Bonessio. Però il catasto saglianese del 1752 lo avrebbe sicuramente messo sulla strada giusta. In ogni caso le sue fonti restano valide e varrà la pena, in futuro, di scavare ancora un po’.
Le miniere di Sagliano Micca e la sua fonderia finirono anche nel “memoriale” autografo compilato dal duca Carlo Emanuele II tra il 1668 e il 1675. Trascritto e pubblicato nel 1879 dallo storiografo Gaudenzio Claretta, quell’augusto manoscritto (in francese, ça va sans dire) non nascondeva la soddisfazione per il buon esito dell’iniziativa in Valle Cervo. Anzi, secondo il duca, c’erano ancora ampi margini di guadagno su cui puntare. Nel novembre del 1669 il sovrano scriveva: “Donner mes minières d’Andorno à qui me donne trente deux sous pour cent de gain, et faire diligence a fin de trouver des maitres fondeurs et pour cela écrire à ma soeur la duchesse de Bavière, en Espagne, en Portugal et même en Pologne a fin d’occuper beaucoup de monde. Dire au General des Finances que pour le dit travail redouble le fond de l’année passée”. Carlo Emanuele II si annotava i suoi stessi propositi per l’avvenire. L’introito per le sue ducali tasche non era sufficiente, quindi si trattava di assegnare le miniere di Andorno (cioè di Sagliano Micca) a chi avrebbe potuto riconoscere a lui, perché di demanio ducale stiamo parlando e non pubblico, il 32% del guadagno (non del ricavo…). Doveva ricordarsi di scrivere a sua sorella Adelaide, la duchessa di Baviera, e a tutti i suoi contatti in Spagna, Portogallo, Polonia… Il duca si occupava di risorse umane! Alla “Drua” e alla Longola potevano trovare lavoro molte persone e lui avrebbe guadagnato di più. Però era consapevole del fatto che il profitto richiede investimenti, quindi, altro pro memoria: dire al Ministro delle Finanze di raddoppiare l’investimento sulle miniere e sulla fonderia in Valle Cervo per il 1670. Nel 1674 lo stesso duca tornava sull’argomento evidenziando che si poteva incrementare ancora il rendimento. L’avvio dell’attività estrattiva deve aver cambiato anche l’antropologia e la sociologia saglianesi. La manodopera qualificata per la fusione e per la purificazione del metallo era, in effetti, almeno all’inizio, straniera (tedesca e borgognona, e i primi minatori erano valdostani, alcuni dei quali morirono in miniera negli anni immediatamente successivi). La manodopera qualificata locale, però, si formò rapidamente, specie per l’attività di scavo… Ecco dove aveva appreso il mestiere Pietro Micca! Nel 1677, il Montadons si ritrovò a corto di personale e in difficoltà a causa del gelo. Chiese che gli fossero inviati venti banditi condannati ai lavori forzati per svuotare le miniere dalle acque e per tenere sgombri i canali dal ghiaccio. Nel 1680 lo stabilimento di Sagliano Micca era in grado di lavorare anche i minerali estratti dalle miniere di Cogne appena attivate. Alla fine del Settecento, dopo più di un secolo di esercizio continuo e vantaggioso, le miniere e la fonderia furono abbandonate. Le tecnologie dell’epoca non consentivano ulteriori opzioni di sfruttamento. Il Biellese, e anche Sagliano Micca, dopo Napoleone avrebbe preso un’altra strada per raggiungere l’industrializzazione, tant’è che nel giro di poco non più il fioretto di rame, ma il pelo di coniglio divenne la materia prima più lavorata nel paese di Pietro Micca. I nipoti del minatore-martire erano già tutti cappellai. La memoria del passato minerario e metallurgico di Sagliano Micca si mantenne fino all’inizio del ‘900, poi l’oblio.